La crisi d’identità delle città

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Il rapporto tra città e contado è il rapporto alla base della società e per giunta anche di ogni civiltà.
Se pensiamo al mondo occidentale da come si è evoluto dall’età classica a quella che noi chiamiamo modernità, non possiamo che pensare alla geografia dei luoghi.
La città con le sue mura al cui interno esisteva la produzione di utensili, di prodotti; in città c’erano le botteghe, quei luoghi dove si trasformavano i prodotti della campagna, da prodotti della terra a prodotti dell’uomo.
Così nel mondo greco, così in quello romano e via nei secoli che i moderni chiamarono medioevo e così ancora fino al XVIII secolo. La vera essenza rivoluzionaria della rivoluzione industriale sta nell’aver stravolto l’identità della città come luogo di produzione di trasformazione. Per decenni i luoghi della produzione sono rimasti in città, semplicemente le fabbriche erano delle enormi botteghe, dove ad un certo punto i prodotti venivano realizzati in serie. Sappiamo che ad un certo punto le fabbriche vengono estromesse dalla città ai suoi margini e attorno crescono nuovi quartieri lungo il suo perimetro, le periferie appunto, che da cintura a volte fanno da cerniera con altri abitati storici, a Milano Lambrate, a Genova Marassi, e nel suo piccolo a Como il Borgo Vico.
Quello che vediamo oggi è un fenomeno che dura da circa trent’anni. Le grandi fabbriche fuori dalle città spesso hanno chiuso, le periferie che erano sorte per alloggiare le persone che dovevano lì lavorare si trovano senza servizi e senza lavoro. A fare da cerniera in questa grande scacchiera di abitati la grande o media distribuzione, spesso unico datore di lavoro in questi luoghi. E nei quartieri ancora storici, nei paesi, uno dopo l’altro chiudono i piccoli negozi, come avevano iniziato a chiudere le piccole e grandi fabbriche.
Oggi la città non è più luogo di produzione materiale. Non è nemmeno quel luogo di distribuzione coi suoi mercati storici, perché il mercato globale è ovunque, così come la produzione è sempre altrove. C’è da chiedersi cosa sia oggi la città e che cosa sarà. Un tempo era il simbolo della civiltà, il contrario del “barbaricum“, perché appunto era in luogo dove la tecnica e l’arte modellavano ciò che la natura donava secondo l’idea dell’uomo civilizzato, che conosceva il linguaggio della civiltà. I processi di gentrificazione, cioè la trasformazione di luoghi popolari in quartieri di lusso è un processo che riguarda le metropoli. Le medie città invece vivono un processo opposto, la trasformazione di interi edifici da residenziale a vocazione turistica, così al tempo stesso il depauperamento del piccolo commercio appena fuori dal centro storico e nei quartieri periferici agli interessi del turismo. Di fronte allo svuotamento abitativo di interi isolati per un uso latifondista degli alloggi, occorre ragionare diversamente su ciò che è la città nel terzo millennio. Una città senza fabbriche, supina ad un “altrove” che porta i beni al suo interno, direttamente a casa o in grandi centri di raccolta. Che spazio ha la piccola impresa artigiana e il commercio al minuto, dache sempre anime della città, in una distorsione storica come questa? Va ripensata la natura produttiva della città. La città che si autoalimenta è la Detroit che ha resistito al default finanziario, ma è comunque una città annichilita. Ad oggi le città sono schiave di ciò che viene da fuori, cibo e prodotti di ogni sorta e questo ha portato chi poteva accentrare il controllo della distribuzione in posizione dominante. Ma abbiamo visto con la pandemia come questo modello abbia molti limiti ed è la causa dello svuotamento delle attività produttive. Abbiamo visto che una società fortemente interconnessa come la nostra rischia di crollare quando salta una qualunque connessione. A questo poi si aggiunge l’abbandono del territorio boschivo non più curato da quando la vocazione agricola è andata sparendo. La città del futuro deve trovare un nuovo rapporto con ciò che ci sta attorno, non solo per una logica di sostenibilità, ma per quella della sopravvivenza. Si è pensata all’agricoltura in luoghi estremi, nello spazio o su altri pianeti, ma cosa c’è di più estremo della città? Gli esempi metropolitani esteri degli orti cittadini possono apparire come qualcosa di velleitario e snob, ma forse sono progetti pilota di quella che sarà la città di domani.