DALLA PARTE DEGLI UCCISI INNOCENTI Don Roberto Malgesini o gen. Cadorna?

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DALLA PARTE DEGLI UCCISI INNOCENTI       Don Roberto Malgesini o gen. Cadorna?

L’avvocato comasco Mario Lavatelli ha recentemente proposto di intitolare a Don Roberto Malgesini quella strada di Como che conosciamo come “via Cadorna”, nel quartiere in cui don Roberto ha a lungo abitato e operato.

Sono trascorsi esattamente sei mesi (15 settembre – 15 marzo) dalla morte di don Roberto e la triste ricorrenza sembra davvero opportuna per sostenere e rilanciare la proposta dell’avvocato Lavatelli, interpretando il pensiero di tanti e certamente degli aderenti a Civitas.

Don Roberto, lo sappiamo, ha agito nella fedeltà a una precisa scelta, quella di testimoniare la prospettiva di un mondo nel quale la dignità della persona sovrasta e precede ogni interesse. Chi ha avuto il dono di conoscerlo personalmente, e tra costoro mi annovero, non può che certificarne l’assoluta e totale dedizione al prossimo  espressa con uno stile mite e buono.

Don Roberto ha davvero incarnato virtù e testimoniato valori che sono  del tutto alternativi a quelli del generale Cadorna: la proposta di Lavatelli va raccolta come l’invito a un più consapevole e critico ripensamento di ciò che siamo stati e ci proponiamo di essere.

La richiesta di cancellare il nome del Maresciallo di Italia e Capo di stato maggiore, generale Cadorna, dallo stradario delle nostre città non è nuova. Al riguardo, lo scrittore Ferdinando Camon, sostenendo l’istanza avanzata a Padova, scrive che «aver dato il nome di Cadorna è stato, ieri, un errore. Mantenerlo ancora diventa, ormai, una colpa». Udine ha provveduto nel 2011 e nel 2018 il consiglio comunale di Merano ha approvato una mozione che impegna nella stessa direzione.

Fin dall’inizio della cosiddetta grande guerra, quella che Benedetto XV definisce con realismo «inutile strage», il generale Cadorna dirama ordini drastici, a suo dire necessari, per imporre e mantenere la disciplina. Al fronte sono stati mandati giovani del tutto impreparati, poco più che ragazzi, che presto  diventano consapevoli delle condizioni estreme in cui sono costretti a operare. Ebbene, Cadorna promuove e incoraggia quella che egli stesso indica come «salutare giustizia sommaria» da porre in atto senza eccezioni e da riservare «anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico»  per il quale «seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita

L’ordine di Cadorna di ricorrere a fucilazioni sommarie e con ampia libertà, senza che ne siano esclusi nemmeno gli ufficiali, diviene esplicito nella tarda primavera del 1916, durante  l’offensiva austro-ungarica.

Nei giorni dell’ottobre 1917 che seguono la tragica disfatta di Caporetto, con non meno di 11.600 soldati italiani morti, 30 mila feriti e 350 mila sbandati, Cadorna si premura di trasmette al comandante delle truppe operanti sull’altopiano di Asiago il seguente ordine: «.. faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano. […] L’altopiano di Asiago va mantenuto a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto».

Tra le truppe italiane, provate e allo sbando, serpeggiano segnali di rivolta che, nel clima di profonda frustrazione, coinvolgono interi reparti. Cadorna, con durezza, ordina allora il ricorso alla “decimazione“. Questa pratica era stata in uso nelle milizie dell’antica Roma. Prevedeva che venisse  “passato per le armi” un soldato ogni dieci in quei reparti nei quali si fossero manifestate paure o segni di insubordinazione.

La procedura che Cadorna ordina di mettere in atto non è affatto prevista dal codice penale militare in essere in quel momento.

Queste le parole sottoscritte da Cadorna nel novembre 1916: «Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli e allorché accertamento identità personale non è possibile, rimane ai comandanti il diritto ed il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte. A codesto dovere nessuno che sia conscio della necessità di una ferrea disciplina si può sottrarre ed io ne faccio obbligo assoluto  indeclinabile a tutti i comandanti».

Cadorna viene sostituito da Armando Diaz proprio in seguito alla disfatta di Caporetto, l’8 novembre 1917.

La Commissione d’inchiesta di Caporetto, istituita pochi mesi dopo con Decreto n. 36 del 17.01.1918, non può che prendere atto dell’esecuzione di centinaia di giovanissimi soldati del tutto innocenti, condannati alla pena di morte in applicazione dell’ordine di Cadorna. La stessa Commissione d’inchiesta definisce l’ordine di Cadorna «provvedimento selvaggio, che nulla può giustificare».

 

Sappiamo con certezza che molte di quelle esecuzioni capitali ebbero luogo nei tragici momenti della ritirata da Caporetto: solo per fare un esempio, il  generale Di Giorgio ordinò la decimazione nei riguardi di un battaglione di superstiti della Brigata “Bologna”  che, ignorando  l’ordine di difesa ad oltranza sulle posizioni di Ragogna, si erano ritirati dietro al Tagliamento.

 

Questi brevi richiami ci confermano che è giunto il momento di sostituire anche nello stradario della nostra città il nome di colui che non si fece scrupolo a ordinare la fucilazione di giovani innocenti in spregio a qualunque legge ed etica con quello di chi è morto, per mano d’uomo,  innocente e facendo solo del bene: il nostro don Roberto Malgesini.

Riportiamo qui, come testimonianza, le parole pronunciate il 13 settembre 1919 dal deputato socialista Filippo Turati nell’intervento alla Camera, durante il dibattito parlamentare sulla relazione conclusiva della Commissione d’inchiesta di Caporetto: «E, fra le riparazioni sacre per tutti, una sola ne rammento, alla quale già accennò il collega Bentini: la riparazione da darsi ai fucilati e ai decimati senza processo, che debbono essere equiparati, a tutti gli effetti, ai morti in combattimento, agli uccisi in guerra guerreggiata. Questo invocano le famiglie desolate, e questo noi dobbiamo affermare, perché infatti essi furono assassinati dai peggiori nemici dell’Italia».

Più di un secolo è passato, ma risuonano attualissime le parole con le quali, nella medesima seduta, lo stesso onorevole Turati motivava il voto contrario a uno specifico ordine del giorno: «Nessuno supporrà che il nostro voto contrario significhi che noi non ci associamo al sentimento  di affetto verso l’esercito, verso i nostri fratelli che hanno combattuto e che hanno sofferto.  Ma cotesta frase generica di «evviva l’esercito!» troppe insidie accoglie e nasconde. Noi non ci associamo a essa, perché non intendiamo né assolvere i generali che ci condussero al rovescio militare, né i generali fucilatori e colpevoli, né tutta la politica di guerra … contro cui protestiamo da cinque anni».